di Dott. Amr Hussein
Medico specilizzando in Medicina del Lavoro
Un tonfo ed era tutto buio o forse il contrario non ricordo.
La sera prima i battiti accelerati tutto il giorno, così forti che un suono assordante usciva dal petto e mi impediva anche solo di dormire. “Mi sento il cuore in gola” quante volte ho sentito questa frase e forse anche sottovalutata, vivere questa sensazione è tutt’altra cosa, è come un’ingestibile grande angoscia.
Dicono che gli uomini soffrano di più la febbre, che per qualche linea cominciano ad avere i brividi, ma svenire dalla febbre non è più questione di “sensibilità” ma una capillare sofferenza che ti consuma. Ebbene è successo e non una, bensì due volte di fila. Ricordo solo le luci blu e poi subito caricato in ambulanza verso il pronto soccorso.
Marzo 2020: attorno a me ho tante, troppe persone, tutte sfinite e senza fiato, “ti facciamo un tampone” mi dicono tra le voci che si sovrappongono ai suoni di macchinari che popolano il pronto soccorso.
Nella mia mente si fanno strada tante domande: “io il covid? Come può essere successo?”
Stavo per diventare il paziente zero di una struttura con quasi 200 persone tra personale e pazienti.
Dimesso, rientro a casa in taxi e dopo alcune ore ricevo la fatidica chiamata: “È positivo”.
Buio, non è possibile, mi son preso quella roba che fa così tanta paura, che sta facendo tante vittime ogni giorno, mi son preso quella cosa che ha ridotto un paese intero ai domiciliari, che ha saturato gli ospedali e ha mobilitato anche i militari?
Trascorse quasi un mese prima di arrivare ai fatidici due tamponi negativi successivi. Per un medico stare a casa mentre sai che i tuoi colleghi sono stremati da turni infernali e ore di sonno arretrate è straziante. In quel momento a casa con me c’era anche tutto il tempo investito nello studio e dedicato alla medicina, eravamo tutti imprigionati in attesa che un tampone possa ridarci una parvenza di libertà; mi sono sentito inutile nel momento di maggior bisogno, mentre la gente muore e soffre è doloroso e difficile da accettare.
Non appena ricevuta la notizia di essere tornato libero, la voglia di rimettersi in gioco e di dare il meglio di me era immensa, l’indomani ero già operativo sul campo.
Un’energia che si è scontrata per la prima volta con il covid, questa volta non più come paziente ma come medico operativo sul campo. Quello che vedevo in tv questa volta lo vedevo dal vivo, di persona, accerchiato da colleghi stremati e pazienti in affanno.
Il COVID del 2020 non era affatto un simpatico inquilino nel nostro corpo, ti ritrovavi in poco tempo e senza nessuna avvisaglia con una miriade di sintomi di cui alcuni totalmente nuovi, solo per farti una rapida carrellata: febbre anche molto alta, tosse secca e persistente anche per mesi, mal di pancia, perdita di sapori e odori (che ritornano a volte dopo tanto tempo), stanchezza infinita, mancanza di fiato e non solo.
Il destino mi ha portato a vivere il covid attorno a pazienti anziani in cui la sofferenza è maggiore rispetto a quella dei più. Devi sapere infatti che l’anziano ha bisogno di punti stabili nella sua vita che gli permettono di mantenere un personale equilibrio, essere ricoverati in un ospedale o in una RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale) e non vedere per settimane o mesi i famigliari logora il corpo e la mente, perdere la possibilità d’interagire con le persone, di uscire genera un costante e dilaniante senso di paura e disorientamento, con questo fardello vincere il covid è una prospettiva tanto gloriosa quanto terrificante.
Qui il ruolo del personale sanitario si carica di nuove responsabilità, ogni giorno il paziente ricoverato sa che vedrà solo il medico e l’infermiere e che questi per lui saranno non solo dei professionisti ma anche la sua famiglia.
Il medico diventa l’unica figura con cui i famigliari fuori dalle mura della struttura sanitaria s’interfacciano e la capacità d’infondere fiducia e serenità e di essere empatici ma allo stesso tempo realistici è essenziale.
Il covid ci ha fatto entrare in un triste promiscuo rapporto con la morte, molti di noi hanno vissuto da vicino le immagini dei morti nei sacchi e delle bare che venivano sigillate ormai con agghiacciante naturalezza. Non sono cose che puoi o potrai mai dimenticare, quando la bara viene sigillata e sai che tu sei l’ultimo ad aver dato il saluto ad una delle vittime del covid è straziante, alzare il telefono per comunicare il decesso di un paziente è ancor più impegnativo, soprattutto quando sai che chi sta dall’altro lato del telefono non potrà dare l’ultimo saluto al suo caro e che affida a te questa responsabilità.
In tutto questo racconto “terreno” la vera differenza la fa la fede e la capacità di riporre in Dio il tuo primo e ultimo affidamento. Vedere la prova di Dio in questi avvenimenti è stato fondamentale per affrontare con serenità e quiete uno dei momenti più bui e impegnativi. Il costante affidamento nell’Altissimo non è un concetto teorico ma è una realtà vera e tangibile che può cambiare il tuo modo di vivere le prove terrene, anche una pandemia.
Abbiate cura della vostra salute, prendete con serietà e serenità la malattia, confidate in Dio dinanzi alle prove e siate vicini ai malati quando ne avete la possibilità.
AUTORE:
Dott. Amr Hussein
Medico specializzando in medicina del lavoro