L’Apartheid di Israele contro la popolazione palestinese
di Avv. Lucrezia Boscari
membro del coordinamento MENA di Amnesty International Italia
di Avv. Lucrezia Boscari
membro del coordinamento MENA di Amnesty International Italia
L’Apartheid è un crimine contro l’umanità che, ai sensi della Convenzione sull’apartheid, dello Statuto di Roma e del diritto internazionale consuetudinario, viene commesso quando un atto disumano viene perpetrato nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominio da parte di un gruppo razziale rispetto ad un altro, con l’intento di mantenere quel sistema.
Ecco perché si può parlare di Apartheid quando ci si riferisce a ciò che sta compiendo Israele nei confronti dei palestinesi.
“Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini…[ma piuttosto] lo stato-nazione del popolo ebraico e solo il loro” dichiarava nel 2019 Benjamin Netanyahu. E già questo dice molto sugli intenti e sulla mentalità sionista.
Ebbene nel 1948, alla creazione dello Stato di Israele, i palestinesi costituivano circa il 70% della popolazione della Palestina e possedevano il 90% della terra come proprietà privata. Gli ebrei, molti dei quali emigrati dall’Europa, costituivano il 30% della popolazione e loro, unitamente alle istituzioni ebraiche, possedevano il 6,5% della terra.
A partire dal ’48 Israele ha perseguito la frammentazione del territorio e gli ebrei hanno continuato a erodere aree sino ad arrivare alle enclavi attuali, come potete vedere dall’immagine.
E’ indicativo esaminare le restrizioni a cui sono sottoposti i palestinesi, a partire dai 4 documenti di identificazione di cui sono in possesso, ognuno dei quali garantisce specifici e limitati lasciapassare.
Gli ebrei israeliani hanno un’unica carta di identità, quindi uno status che gli garantisce di vivere ovunque, spostarsi, avere accesso al servizio sanitario e ad ampie risorse. I palestinesi, d’altro canto, hanno quattro carte di identità diversificate in base alle aree geografiche e ai livelli di diritti garantiti, che determinano i luoghi in cui possono andare o meno. Con la Green Card si è sottoposti alla legge marziale; se la Green Card è legata alla striscia di Gaza, si è intrappolati in una prigione a cielo aperto di 365 Km2 e sotto il blocco militare israeliano risalente al 2007. Israele controlla quello che entra e quello che esce, dai giocattoli alle forniture mediche.
Il 47% della popolazione di Gaza è disoccupato, il 56% è in stato di povertà assoluta. A questi palestinesi è vietato andare a Gerusalemme e in Cisgiordania, anche se ci vivono dei familiari. Se la Green Card ha un indirizzo Cisgiordano, vuol dire che il soggetto ci abita e può vivere nelle enclavi, circondate da insediamenti israeliani illegali. Intorno ci sono recinzioni costruite dopo il 2002, che i palestinesi chiamano il “muro dell’apartheid”. Il muro è alto 8 metri e lungo 700 km, due volte più alto del muro di Berlino e oltre 4 volte più lungo. E’ stato costruito per l’80% su territorio cisgiordano e all’interno ci sono strade adibite a ebrei e altre ai palestinesi. Centinaia sono i Check Point sparsi ovunque.
I Palestinesi con green card cisgiordana possono andare a Gaza e a Gerusalemme est, solo se ricevono il permesso dell’esercito. Il documento “Blu” è invece riservato ai palestinesi di Gerusalemme est, che possono andare nella Cisgiordania occupata e in Israele, ma non sono cittadini di Israele, hanno solo lo status di residenti. Questo comporta che non possono votare e nel caso dovessero lasciare Gerusalemme est per un periodo lungo, per lavoro o per studio, la residenza potrebbe essere ritirata e non potrebbero più fare rientro.
Dal 1967 Israele ha revocato lo status di residenti a 14.600 palestinesi.
Infine ci sono i palestinesi cittadini di Israele. Hanno la cittadinanza ma non avranno mai la nazionalità e quindi l’uguaglianza, a patto che non si convertano all’ebraismo, ma la legge lo vieta. Possono candidarsi per le elezioni ma le disuguaglianze non sono mai state eliminate, nemmeno se eletti in parlamento. Come se tutto ciò non bastasse, nel 2002 Israele ha vietato i ricongiungimenti familiari. Israele ha reso pressoché impossibile per i palestinesi ottenere delle licenze edilizie costringendoli a costruire senza permessi e sotto la costante minaccia di abbattimento.
Attualmente sono 150.000 i palestinesi che rischiano ogni giorno demolizioni e sgomberi forzati.
Nel 2020, ogni settimana sono state demolite 18 strutture palestinesi in Cisgiordania.
Nello stesso anno sono state rilasciate 1094 concessioni edilizie per ebrei israeliani e solo 1 ai richiedenti palestinesi.
“Villaggio di Al-Araqib, demolito dalle autorità israeliane 211 volte dal 2010 al 2022”.
Senza contare la strategica pianificazione nell’acquisizione delle risorse palestinesi al fine di avvantaggiare gli ebrei israeliani.
Insomma, un sistema strutturato per perpetrare una vera e propria pulizia etnica e mantenere l’emarginazione dei palestinesi con violazioni dei diritti umani che Amnesty International documenta da decenni.
Ma come si mantiene, di fatto, un regime di apartheid? Vi è un lato brutale ed evidente.
Tra il 2017 e il 2020 sono stati 4.868 i palestinesi uccisi al di fuori dei conflitti armati e di questi 1.793 erano minori, inoltre non risulta che alcun militare israeliano sia stato condannato per aver causato volontariamente la morte di un palestinese nei territori occupati.
La mancanza di accesso a servizi di base e opportunità economiche aggrava ulteriormente le sfide affrontate dalla popolazione palestinese.
La Striscia di Gaza, un'enclave densamente popolata, è al centro delle preoccupazioni umanitarie. Il blocco imposto da Israele, in collaborazione con l'Egitto, ha portato a gravi carenze di beni essenziali, tra cui cibo, carburante e forniture mediche. I cicli ricorrenti di violenza hanno inflitto un pesante tributo alla popolazione civile, in particolare ai bambini, che ne sono colpiti in modo sproporzionato.
La comunità internazionale è stata attivamente coinvolta nel tentativo di mediare una pace duratura tra Israele e Palestina. Sono state proposte varie risoluzioni e iniziative di pace, ma raggiungere un consenso rimane sfuggente. Gli sforzi diplomatici affrontano spesso sfide significative, con considerazioni geopolitiche che complicano la risoluzione del conflitto, ma coinvolgere tutte le parti interessate, compresi i paesi della regione e le Nazioni Unite, è cruciale per favorire il dialogo, la comprensione e trovare una soluzione sostenibile in cui trovino spazio giustizia e riparazione per tutte le vittime.
Nell’ultimo periodo si sta assistendo ad una escalation del conflitto tra Israele da un lato e Hamas e altri gruppi armati palestinesi dall’altro. Questa escalation è cominciata con gli attacchi di Hamas e degli altri gruppi armati palestinesi, avvenuti lo scorso 7 ottobre, durante i quali sono rimaste uccise circa 1.400 persone e sono stati catturati almeno 200 ostaggi. Questo conflitto ha causato la perdita di innumerevoli vite, si parla di quasi 20.000 vittime, di cui oltre il 70% donne e bambini.
Ma non è finita qui. L’assedio rafforzato di Israele nei confronti di Gaza ha bloccato l’ingresso non solo di cibo e carburante, ma soprattutto di acqua.
Il 96% dell’acqua a Gaza non è potabile. Gli abitanti della zona sono costretti a lottare per la sopravvivenza, a comprare l’acqua da Israele a prezzi maggiorati, lo stesso Israele che distrugge le cisterne di acqua piovana costruite dai palestinesi e costringe oltre due milioni di persone a lottare per un sacco di farina, in zone in cui dall’inizio del conflitto è entrato solo il 10% del cibo necessario a sfamare la popolazione.
La catastrofe umanitaria provocata da 16 anni di blocco illegale di Israele nei confronti della Striscia di Gaza sta continuando a peggiorare, portando con sé devastazione e sofferenza. Tanti sono i drammi che affliggono questa area del mondo, l’apartheid, i crimini di guerra, nel silenzio dei leader mondiali.
La situazione in Palestina è una preoccupazione globale urgente, riflettendo la necessità di una risoluzione completa e giusta. La ricerca di giustizia per il popolo della Palestina rimane un imperativo per un mondo più armonioso ed equo.
Ecco che quindi la società civile è chiamata a fare la differenza, firmando appelli, aderendo al boicottaggio di chi finanzia attacchi e bombardamenti, sensibilizzando l’opinione pubblica.
Purtroppo i media italiani ma anche europei in generale stanno portando avanti una narrazione falsata e schierata, ricca di faziosità e definizioni prive di riferimenti giuridici, per questo sta alla responsabilità di ciascuno di noi di informarci e fare ricerca affinchè la verità venga alla luce.
Padova, 21/12/2023
AUTORE:
Avv. Lucrezia Boscari
Coordinamento MENA Amnesty International Italia